Operazione del Commissariato di Iglesias

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La Polizia di Stato nell’ambito dei servizi di controllo del territorio finalizzati anche al contrasto dello spaccio delle sostanze stupefacenti, ulteriormente intensificati per rispondere alle sempre più frequenti richieste da parte dei cittadini, tramite gli Agenti del Commissariato di P.S. di Iglesias coadiuvati dalle unità cinofile antidroga e antiesplosivo hanno eseguito dei controlli nel comune di Gonnesa che hanno portato all’arresto di VIRDIS Fabrizio, noto “Fuoco”, 38enne pregiudicato e FILIPPINI Luca 23enne entrambi di Gonnesa per il reato di detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti. Intorno alle ore 08.40 odierne, a seguito di indagini effettuate dagli Agenti del Commissariato sono state eseguite, in due distinte operazioni, le perquisizioni nelle abitazioni dei due soggetti. Nel domicilio di Fabrizio VIRDIS è stato rinvenuto un sacchetto di nylon che lo stesso, al momento dell’accesso degli operatori nella sua abitazione, ha tentato di occultare lanciandolo dalla finestra nel cortile della casa. Immediatamente recuperato è risultato contenere gr. 770,30 di hashish, suddiviso in panetti e pezzi, un sacchetto con gr. 45,22 di marijuana e gr. 163,49 di cocaina, raccolta in 17 ovuli e 3 buste e una busta contenente sostanza da taglio. Dal controllo nell’abitazione di VIRDIS gli Agenti hanno ritrovato anche un bilancino di precisione, tre coltelli a serramanico con la lama imbrattato di residui di hashish e la somma €. 1.630 in banconote di vario taglio, ritenuta provento di pregressa attività di spaccio. Nell’abitazione di FILIPPINI sono stati invece rinvenuti gr. 641,56 di marijuana, di cui una parte occultata in una scatola, insieme a pellicola trasparente idonea al confezionamento, nascosta sotto il letto e l’altra in un sacchetto riposto in un ripiano dell’armadio collocato nella stessa stanza. Accanto alla busta è stata recuperata anche una scatoletta contenente g. 24,26 di hashish suddivisi in 2 pezzi avvolti singolarmente con pellicola trasparente. In un ripiano della libreria collocata nella stanza da letto è stato rinvenuto un coltello a serramanico con la lama imbrattata di residui di hashish, mentre nella sala da pranzo sono stati rinvenuti due bilancini elettronici di precisione, efficienti e la lama di un cutter imbrattata anch’essa di residui di hashish.fonte polizia di stato
fonte polizia di stato

Brasile: nell’ultimo anno oltre 52 morti da proiettili vaganti.

Che il Brasile sia un Paese con gravi problemi di criminalità è ormai noto ai più: secondo l’UNDOC (l’ufficio dell’ONU che si occupa di crimini e traffico di droga), è il primo Paese al mondo per numero di persone assassinate (oltre 58.500 nel 2014).

Ciò che probabilmente molti ignorano, invece, è un altro problema enorme che investe il Paese verde oro, sempre legato alla sicurezza: le morti determinate da “bala perdida” (proiettili vaganti).

Vite spezzate di persone innocenti, in maggioranza bambini e adolescenti, che vengono colpite a morte da proiettili esplosi per lo più in occasione di conflitti a fuoco tra criminali e forze dell’ordine, dispute tra bande rivali, risse e litigi stradali.

Si stima che nel corso del 2015, le vittime da “bala perdida” siano almeno 52, mentre le persone rimaste ferite sarebbero 86.

Il dato, fornito pochi giorni fa dalla rete televisiva “O Globo” di San Paolo, è stato ricavato da notizie e servizi giornalistici andati in onda in occasione dei vari episodi verificatisi: la Polizia Civile, organo deputato a indagare su questi eventi, non è in possesso di una contabilizzazione precisa.

Il numero più rilevante, sia di morti (15) che di feriti (45), è quello registrato a Rio de Janeiro (il 44% del totale), città che, è bene ricordarlo, il prossimo agosto ospiterà i Giochi della XXXI Olimpiade.

Il dato non sorprende: il “programma di pacificazione” delle favelas più grandi e pericolose di Rio (Rocinha, Complexo do Alemao, Cantagal, Vidigal, Jacarezinho, Manginhos, Morro da Providencia, solo per citarne alcune), messo in atto dal Governo dello Stato di Rio de Janeiro da alcuni anni, supportato anche dal Governo Federale, è ben lungi dall’essere realizzato. Le operazioni di polizia finalizzate ad arginare il dominio incontrastato dei trafficanti di droga armati quasi come un esercito regolare, spesso sfociano in conflitti a fuoco interminabili, che si differenziano in poco dagli scontri bellici “tradizionali”, ed in cui le armi utilizzate da ambo le parti sono fucili e carabine ad alta potenzialità, con gittata efficace superiore ai 2 km. In mezzo al fuoco incrociato, i residenti delle favelas, lavoratori poveri costretti a convivere con indici di violenza e mortalità dei Paesi attraversati da guerre civili.

Ma nessuno può considerarsi immune dal rischio derivante da queste “operazioni belliche”: le favelas, infatti, sorgono spesso a pochi metri dai luoghi più rinomati e turistici della città.

Anche se in misura minore, il problema delle vittime da “bala perdida” riguarda quasi l’intero Brasile: in altri 21 Stati si sono verificati casi di decessi o ferimenti.

E al dramma delle tante vite perse e delle numerose persone rimaste ferite, anche in modo grave e con danni permanenti, si aggiunge quello della difficoltà estrema di individuare i colpevoli.

Taynà era una bimba di sette anni, stava giocando in strada quando un proiettile vagante la colpì mortalmente alla testa; Mirìa, professoressa 40enne, quando fu colpita a morte si stava recando presso la scuola in cui insegnava; Asafe aveva nove anni, un proiettile vagante spezzò la sua vita quando stava uscendo da una piscina; Matheus aveva sei anni, anche lui morì mentre stava giocando in strada; Echiley aveva 8 anni, stava andando a scuola insieme a suo fratello, undicenne: un colpo attinse lei mortalmente, un altro il fratello, lasciandolo paraplegico; Patricia, studentessa 18enne, rimase uccisa all’uscita di scuola: si sarebbe dovuta incontrare con sua madre per pranzare insieme. Sono solamente alcune delle vittime innocenti di questa barbarie, e i rispettivi familiari, oltre al dolore indicibile per la scomparsa dei loro cari, molto probabilmente non avranno mai nemmeno la lieve, seppur illusoria consolazione che potrebbe derivare dal sapere chi è stato a distruggere quelle vite.

di Umberto Buzzoni

Avvolta nel mistero la morte di Giulio Regeni

Mistero profondo sulla morte di Giulio Regeni, il 28enne ricercatore friulano scomparso la notte del 25 gennaio a Il Cairo e ritrovato privo di vita il 3 febbraio, ai margini dell’autostrada, alla periferia della capitale egiziana. Le notizie fornite dalle autorità egiziane sono confuse e contraddittorie: l’ambasciatore egiziano a Roma, Amr Mostafa Kamal Helmy, fa espresso riferimento ad un “atto criminale”, pur non precisandone natura e dettagli; il Direttore dell’Amministrazione Generale delle Indagini di Giza, generale Khaled Shalabi, di contro, sostiene che non ci sono sospetti tali da poter attribuire la morte del giovane a fatti criminali, in quanto le indagini sinora svolte fanno propendere per un “incidente stradale”.

Sta di fatto, però, che, da quanto emerso dai primi risultati dell’esame autoptico, la morte del ricercatore universitario sarebbe stata provocata da un forte colpo alla testa inferto da un corpo contundente. Inoltre, numerose sono le ferite presenti in varie parti del corpo, diverse delle quali attribuibili a bruciature di sigaretta e tagli da coltello, il che porta a ritenere che il giovane sia stato prima torturato per poi andare incontro ad un’atroce e lenta morte. La notizia è confermata anche da uno dei quotidiani egiziani più filo-governativi, cosa che sconfessa definitivamente il presunto “incidente stradale” prefigurato dal generale della Polizia Khaled Shalabi. A propendere per l’omicidio è anche la Procura del Cairo, che, oltre alle ferite di cui sopra, parla, altresì, di “contusioni attorno agli occhi, come fossero il risultato di pugni”.

Proprio a causa delle evidenti contraddizioni nelle diverse versioni dei fatti, sono intervenute le massime autorità politiche italiane (Presidente della Repubblica e Capo del Governo), chiedendo con forza chiarezza sul decesso di Giulio Regeni, in particolare che sia fatta piena luce “sulla preoccupante dinamica degli avvenimenti, consentendo di assicurare alla giustizia i responsabili di un crimine così efferato, che non può rimanere impunito”. Intanto, le autorità egiziane, che hanno assicurato il massimo impegno nelle indagini e la massima collaborazione con le istituzioni del nostro Paese, hanno consegnato il corpo all’ospedale italianoUmberto I” del Cairo. Fin qui le ultime notizie; ma facciamo un passo indietro e cerchiamo di capire chi era Giulio Regeni, il perché della sua presenza in Egitto ed il possibile movente del suo omicidio.

Nato 28 anni fa a Fiumicello in provincia di Udine, Giulio viene descritto come “il figlio che tutti vorrebbero”, un ragazzo serio, intelligente, dalle grandi capacità. Una bella persona, un giovane determinato ma solidale, conoscitore del mondo ed appassionato di Medio Oriente. Dai 12 ai 14 anni era stato sindaco dei ragazzi del suo comune, che poi aveva lasciato per recarsi a Trieste, ove aveva frequentato il liceo “Petrarca”. Arriverà successivamente l’esperienza estera: una borsa di studio, gli ultimi 3 anni di liceo nel Collegio del Mondo Unito del New Mexico (USA). Infine, l’università in Inghilterra, prima ad Oxford, dove ha conseguito una laurea ad indirizzo umanistico, quindi il dottorato a Cambridge, che, a settembre scorso, lo aveva portato al Cairo, dove faceva ricerche per una tesi sull’economia locale.

Capace di parlare correntemente arabo ed inglese, nel 2012 e 2013 aveva vinto due premi al concorso internazionaleEuropa e Giovani”, promosso dall’Istituto Regionale per gli studi europei per ricerche ed approfondimenti sul Medio Oriente. Da quando era in Egitto, collaborava con il quotidianoIl Manifesto”, scrivendo articoli sotto pseudonimo: “preferiva non firmarli perché aveva paura per la sua incolumità”, così ha riferito ai microfoni di “Radio Popolare” Giuseppe Acconcia, collaboratore del quotidiano, aggiungendo “Giulio si occupava soprattutto di movimenti operai e sindacalismo indipendente e per questo aveva contatti con l’opposizione egiziana”. Proprio oggi, “Il Manifesto” ha pubblicato l’ultimo articolo di Giulio Regeni, questa volta con il nome vero, nonostante la diffida ricevuta dalla famiglia, dal titolo “In Egitto, la seconda vita dei sindacati indipendenti”.

Molto probabilmente, è proprio nell’ambito del suo marcato impegno a favore dei diritti civili, della democrazia, della libertà sindacale, che vanno indagate le cause del suo barbaro assassinio. Non possiamo non rilevare, infatti, che è avvenuto in un Paese il cui Presidente, Abdel Fattah Al Sisi, è salito al potere nel 2013 a seguito di un colpo di stato, in cui le libertà sono fortemente compromesse ed in cui, negli ultimi tempi, centinaia di oppositori del regime continuano a “scomparire” senza lasciare traccia.

Al momento, le pressioni del Governo Italiano sembrano aver sortito i primi effetti. Il premier egiziano, infatti, ha acconsentito affinchè una task force di poliziotti e carabinieri italiani si rechi al Cairo per affiancare i colleghi egiziani nelle difficili e delicate indagini; inoltre, è stato rilasciato il nulla osta per il trasferimento in Italia della salma del povero Regeni, che arriverà alle ore 13 di domani nello scalo aeroportuale di Fiumicino, da dove sarà poi trasferita presso l’Istituto di Medicina LegaleLa Sapienza”, per essere sottoposta a nuova autopsia, disposta dalla Procura della Repubblica di Roma, che indaga per omicidio volontario.

di Umberto Buzzoni

Roma, incendio in un appartamento: anziana muore intrappolata tra le fiamme

Tragedia ieri pomeriggio in via Appia Nuova a Roma dove una donna di 88 anni, disabile, è morta nell’incendio divampato nel suo appartamento sito al primo piano del palazzo. I residenti sono fuggiti in strada terrorizzati dalle fiamme e dalla nube di fumo che ha riempito le scale dello stabile ma la donna non è riuscita a fuggire in tempo e quando i Vigili del fuoco hanno fatto irruzione nell’appartamento con gli idranti e le maschere di ossigeno era troppo tardi. Altri inquilini sono rimasti intossicati dal fumo. Sembra nessuno in modo grave ed è stato sufficiente respirare ossigeno dalle ambulanze arrivate sul posto.

Il rogo si è sviluppato verso le ore 16 nello stabile ad angolo fra via Appia Nuova e via Enea, poco distante da Villa Lazzaroni e sul posto sono accorsi in aiuto e per spegnere le fiamme alcune squadre di Vigili del fuoco, Carabinieri, ambulanze e gli agenti di Polizia e dell’autoradio del vicino Commissariato Appio in Via Botero diretti dal Dirigente dott. Michele Peloso e coadiuvati dal Sovrintendente Capo Coppola Giuseppe e l’Assistente Capo Angela Pellegrina.

L’inchiesta è affidata ai Carabinieri che dovranno accertare le cause, ma potrebbe trattarsi del surriscaldamento di una stufetta elettrica usata dall’anziana.

di Umberto Buzzoni

Carrara: maresciallo dei Carabinieri ucciso per vendetta

Nella mattinata di oggi, Antonio Taibi, 47 anni, maresciallo dei Carabinieri in servizio presso il Comando Provinciale di Massa, è stato ucciso a sangue freddo, con un colpo di pistola sparatogli a bruciapelo, sull’uscio di casa. Il presunto assassino è un ex postino di Carrara, Giuseppe Vignozzi, di anni 71, il quale, poco dopo l’omicidio, si è costituito dichiarando “mi sono vendicato”.

Erano le 07.30, quando il Vignozzi ha suonato il campanello della casa del Maresciallo Taibi, ubicata in via Monterosso, nel centro di Carrara, spacciandosi per un musicista. Il militare, ignaro che il destino lo stava conducendo all’appuntamento con la morte, si è recato all’ingresso, ha aperto e nello stesso istante il Vignozzi, armato di una pistola semiautomatica cal. 9, gli ha esploso contro un solo colpo, ma fatale.

Subito dopo, l’omicida si è allontanato a piedi, facendo perdere le sue tracce. Peraltro, un paio d’ore più tardi, mentre era in corso una capillare caccia all’uomo, si è recato alla Sezione di P.G. dei Carabinieri presso la Procura della Repubblica di Carrara, costituendosi. Nella circostanza, avrebbe dichiarato agli inquirenti: “quel maresciallo aveva rovinato la vita a me e ai miei figli, mi sono vendicato!”. Per il Vignozzi, quindi, il maresciallo Taibi rappresentava la causa dei tanti guai giudiziari dei suoi due figli, Riccardo ed Alessandro. In passato, infatti, la vittima, che dal 1996 al 2006 aveva fatto parte del Nucleo Operativo, pare avesse indagato su di loro per reati connessi con il mondo della droga. Uno dei due, Riccardo, 31enne, nel 2013 era stato anche fermato dopo una lunga serie di furti nelle scuole ed in un caso aveva persino lasciato un biglietto su cui si definì “Diabolik” per “colpa della crisi”. Proprio ieri, il Tribunale di Massa aveva condannati entrambi a poco più di un anno di carcere: in questo caso, il reato contestato ai fratelli Vignozzi non era grave (detenzione a fini di spaccio di pochi grammi di sostanze stupefacenti), ma il giudice Alessandro Vinci, considerati i numerosi precedenti dei due imputati, non aveva potuto concedere le attenuanti. Molto probabilmente, è stata proprio quest’ultima condanna a far nascere nella mente dell’ex postino l’idea della vendetta, innescando la scintilla della furia omiicida, ossessionato dal fatto che se i figli avevano problemi con la giustizia, la “responsabilità” era tutta del povero maresciallo Taibi!

Sottoposto ad immediato interrogatorio dal Sostituto Procuratore Alberto Dello Iacono, che coordina le indagini, il presunto assassino è stato poi sottoposto a fermo con l’accusa di omicidio doloso aggravato. Resta da capire se il crimine sia stato ideato ed organizzato dal solo Giuseppe Vignozzi o se in accordo con altri, compresi i familiari, così come si sta indagando sulla provenienza della calibro 9, che il Vignozzi, prima di costituirsi in Procura, aveva lasciato all’interno della sua autovettura. Grande commozione ha suscitato la tragica scomparsa del maresciallo Antonio Taibi, definito da tutti “un professionista eccezionale”. Il sottufficiale lascia la moglie e due figli, di 21 e 16 anni…la sua unica colpa: quella di aver fatto il proprio dovere con integerrima professionalità.

di Umberto Buzzoni

Risolto il giallo di Firenze: è un senegalese il presunto assassino di Ashley Olsen

Nel giro di pochi giorni, la Squadra Mobile della Questura fiorentina ha risolto il mistero della morte violenta di Ashley Olsen, la giovane americana trovata priva di vita il 9 gennaio scorso, all’interno del monolocale di via Santa Monaca 3, in Firenze, città dove viveva da circa quattro anni. Ad ucciderla sarebbe  stato Diaw Cheiktidian, 27 enne cittadino senegalese, arrivato clandestinamente in Italia alcuni mesi fa, per ricongiungersi con un suo fratello.

Gli sviluppi delle indagini che hanno portato al fermo del senegalese, gravemente indiziato di omicidio doloso aggravato dalla crudeltà e per aver agito nei confronti di un soggetto in condizioni di minorata difesa, sono stati spiegati dal Procuratore Capo di Firenze, Dr. Giuseppe Creazzo, nel corso di una conferenza stampa, il quale, tra l’altro, ha precisato “Abbiamo dovuto chiudere le indagini per impedire che il sospettato fuggisse; le prove finali, decisive, che ci hanno indotto ad emettere il fermo, sono arrivate solo ieri sera (mercoledì 13 – n.d.r.) e consistono nel risultato delle analisi del dna”.

Pare che la Ashley Olsen ed il suo presunto assassino si fossero conosciuti la notte stessa del delitto in una discoteca fiorentina (il club Montecarla in via de’ Bardi), per poi recarsi presso l’abitazione della ragazza. Una volta a casa, dopo un rapporto sessuale consenziente, per motivi ancora da appurare compiutamente, avevano avuto un litigio, culminato con l’omicidio della giovane statunitense.

Dai primi risultati dell’autopsia, sono emersi segni di strangolamento e due fratture alla base del cranio, le quali, verosimilmente, già da sole sarebbero state sufficienti ad ucciderla.

Evidenti e schiaccianti sembrano essere le prove a carico dell’indagato: a) numerosi sono i testimoni che lo avevano visto allontanarsi dalla discoteca in compagnia della ragazza, così come diverse sono le telecamere che li avevano ripresi insieme; b) dopo aver ucciso la Ashley Olsen, il senegalese si è allontanato dal luogo del delitto portando via il telefonino della giovane e poi inserendovi la propria scheda sim, con cui, il giorno seguente, ha fatto alcune telefonate alla sua ragazza italiana, prima di gettarlo via e di inserire di nuovo la sim nel suo cellulare.

Peraltro, come già evidenziato, fra le prove finali che hanno fatto scattare il fermo, i risultati delle analisi del dna sui reperti biologici prelevati dalla polizia scientifica in occasione del primo sopralluogo sulla scena del crimine: un profilattico ed una cicca di sigarette. In occasione dell’autopsia, inoltre, erano state repertate tracce biologiche presenti nella vagina della Ashley Olsen e residui di pelle rinvenuti sotto le sue unghie. Il dna di tutti i campioni combacia con il dna del senegalese sospettato dell’omicidio!

Diversamente da quanto sospettato in un primo momento, non è stata acclarata l’ipotesi del “gioco erotico” e, sempre in base a ciò che ha riferito dal Dr. Creazzo  “è possibile che i due protagonisti non fossero lucidi, aspettiamo gli esami tossicologici su Ashley, abbiamo elementi per pensare che avessero assunto sostanze che non li rendevano lucidi, alcol di sicuro, forse altro”.

Diaw Cheiktidian, dopo il fermo, assistito dall’avvocato Antonio Voce, ha subito un lungo interrogatorio, durante il quale, messo di fronte ai numerosi elementi probatori a suo carico, ha finito con l’ammettere di aver spinto violentemente a terra Ashley, negando, però, di averla strangolata e di averla voluta uccidere.

Nella sua “confessione”, il senegalese ha affermato che la lite sarebbe nata dopo il rapporto sessuale, in quanto la ragazza voleva mandarlo via: “Mi ha detto vattene, deve arrivare il mio fidanzato, e mi ha spinto alla porta. A quel punto, egli l’avrebbe colpita con un pugno alla nuca, urlandole “Mi hai trattato come un cane!” A causa del pugno, lei sarebbe caduta, per poi rialzarsi e spingerlo; al che, lui avrebbe reagito strattonandola violentemente, facendola cadere di nuovo;  in occasione della seconda caduta, Ashley avrebbe battuto la testa al pavimento.

di Umberto Buzzoni

Omicidio di Ancona: Arrestata anche la 16enne

fonte Ansa

fonte Ansa

Ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal G.I.P. presso il Tribunale per i Minorenni di Ancona, Paola Mureddu, nei confronti della 16enne (già in stato di fermo), per concorso, insieme al fidanzato Antonio Tagliata, nell’omicidio della madre, Roberta Pierini, e nel ferimento del padre, Fabio Giacconi (ormai in coma irreversibile).

I fatti risalgono al 7 novembre scorso, quando, in Ancona, nell’abitazione della famiglia Giacconi-Pierini, il 18enne Antonio Tagliata, armato di una pistola calibro 9, fa fuoco contro i genitori della sua fidanzatina 16enne, uccidendo la mamma e ferendo gravemente il papà, riducendolo in fin di vita: secondo le prime indiscrezioni, Roberta Pierini, impiegata 49enne, è stata raggiunta da tre colpi cal. 9 x 21, uno mortale alla testa (regione parietale destra), uno al fianco destro ed uno di striscio al fianco sinistro. Fabio Giacconi, anche lui 49enne, sottufficiale dell’Aeronautica Militare, invece, pare sia stato attinto da 4 colpi al torace. L’assurdo movente è da individuare in un giovane amore contrastato: la colpa di Roberta Pierini e di suo marito Fabio Giacconi, sarebbe stata quella di essersi opposti alla relazione tra la figlia 16enne ed il fidanzato, appena maggiorenne.

Il dramma si è consumato alle ore 13.30 circa, nella palazzina sita al civico 9 di via Crivelli, quando i vicini di casa, allarmati dal fragore di almeno cinque o sei colpi d’arma da fuoco provenienti dall’appartamento al quarto piano, hanno chiamato i Carabinieri ed il 118. Entrati in casa, i militari hanno trovato Roberta Pierini priva di vita, riversa a terra sul terrazzo, dove, forse, aveva cercato una via di fuga. A ucciderla un proiettile alla testa. Poco distante suo marito, Fabio Giacconi, colpito 4 volte al torace e di striscio ad un orecchio. Le condizioni dell’uomo sono apparse subito gravissime, tanto che, nei giorni successivi, è entrato in coma irreversibile.

Le indagini, coordinate dal Sostituto Procuratore Andrea Laurino, si sono concentrate immediatamente nei confronti della figlia 16enne della coppia e del suo fidanzato, il 18enne Antonio Tagliata, resisi irreperibili e quindi considerati in fuga. Qualche ora dopo, i due ragazzi sono stati intercettati dai Carabinieri alla stazione di Falconara, ove erano arrivati in motorino.

Il giovane si è assunto la piena responsabilità dell’accaduto, riferendo agli inquirenti che a sparare contro i coniugi Giacconi era stato solamente lui e l’aveva fatto perché, in occasione dell’ennesima lite avuta con i predetti a causa della sua relazione con la 16enne, si era spaventato per l’atteggiamento oltremodo aggressivo avuto nei suoi confronti da Fabio Giacconi.

Poco dopo, il giovane omicida ha fatto ritrovare anche la pistola, che aveva gettato in un cassonetto per l’immondizia. In seguito, ha dichiarato che l’arma l’aveva comprata da un albanese, in pieno centro storico di Ancona, per la somma di 450 euro. Insieme alla pistola, aveva comprato anche tre caricatori e ben 86 proiettili.

Nell’immediatezza delle indagini, Antonio Tagliata è stato sottoposto a fermo di polizia giudiziaria per omicidio, tentato omicidio e porto abusivo di arma da fuoco. Dopo la convalida del fermo, il GIP di Ancona ha emesso nei suoi riguardi ordinanza di custodia cautelare in carcere, per gli stessi reati. La ragazza, invece, è stata portata in una comunità protetta. Con il passare delle ore, però, il Tagliata, cambiando atteggiamento, ha cominciato scaricare le colpe sulla sua fidanzatina, sostenendo che era stata lei a dirgli di sparare.

Intervistato in occasione di una trasmissione televisiva, il padre di Antonio Tagliata, Carlo Tagliata (tra l’altro anche lui resosi responsabile di omicidio quando era ancora minorenne), dopo aver sottolineato che i genitori della ragazzina si erano più volte opposti alla relazione con suo figlio e che l’avevano tenuta spesso segregata in casa, ha dichiarato “la fidanzata di mio figlio è molto problematica, ha una situazione familiare molto difficile. Penso che mio figlio sia stato plagiato da lei; sono inoltre certo che mio figlio non voleva uccidere, anzi voleva suicidarsi. Era questa la sua intenzione prima di recarsi all’appuntamento con i genitori della sua fidanzata. Mio figlio ha preso la pistola per togliersi la vita, ve lo posso assicurare. Aveva anche chiamato la madre per dirle addio. Non era lucido quando ha sparato al padre della sua ragazza”.

A seguito della mutata strategia processuale di Paolo Tagliata e sulla base di ulteriori risultanze investigative, la posizione della 16enne si è aggravata, tanto che, come detto all’inizio, anche nei suoi confronti è stata adottata ordinanza di custodia cautelare in carcere. Dal canto suo, la ragazza, delusa dal quel “tradimento” di Antonio, continua a ribadire la propria versione dei fatti, affermando “non è vero, non gli ho detto spara, spara…doveva esserci solo un chiarimento tra me, Antonio ed i miei genitori che osteggiavano il nostro rapporto…pensavo che fosse una pistola giocattolo e non è vero che ho detto spara”.

Fin qui la cronaca di questa tragedia che tanta commozione ha suscitato nella comunità di Ancona. A questo punto, però, come non chiedersi in che razza di mondo viviamo: FIGLI CHE UCCIDONO I GENITORI, GENITORI CHE UCCIDONO I FIGLI! Quella di Ancona, infatti, non è che l’ultima, in ordine di tempo, di una lunga serie di tragedie analoghe verificatesi negli ultimi anni, tra le quali, probabilmente, le più emblematiche e note al grande pubblico sono quella di Novi Ligure del 22 febbraio 2001, quando Erika De Nardo (16enne) ed il fidanzato Mauro (detto Omar, 17enne) uccidono la madre ed il fratellino di lei, e di Cogne del 30 gennaio 2002, quando Annamaria Franzoni massacra, uccidendolo, il figlioletto.

Ed immancabilmente, dopo ogni dramma del genere, sia sulla carta stampata che nelle trasmissioni televisive, c’è la rincorsa agli esperti più titolati nel settore della psiche, affinchè forniscano una qualche spiegazione plausibile su questi efferati delitti familiari, dai più definiti “contra natura”. Ma proprio perché “contra natura”, molto difficilmente potranno mai trovare una spiegazione.

di Dott. Rosario Calardo

Uccide madre e figlia a colpi di accetta, preso il killer di Pordenone

Ci sarebbero questioni economiche dietro al massacro di due cittadine cinesi, madre di 49 anni e figlia di 22, avvenuto ieri sera a Pordenone. Poco dopo, due equipaggi delle Volanti hanno fermato il probabile autore del duplice omicidio: si tratta di un connazionale delle due vittime.

L’uomo, un 58enne regolarmente residente a Milano, stava litigando in viale Marconi con un altro cittadino cinese più giovane; erano le 21.15 e un passante ha segnalato la lite al 113, che ha subito inviato le Volanti insieme ad altrettanti equipaggi dei Carabinieri.

Mentre separavano i contendenti i poliziotti si sono accorti che uno dei due aveva mani e vestiti sporchi di sangue, mentre l’altro diceva agli agenti di temere che al primo piano della sua abitazione, al civico 19 di quella via, fosse accaduto qualcosa di grave e che l’uomo insanguinato non voleva farlo entrare in casa sua.

Dopo aver raggiunto l’appartamento i poliziotti hanno trovato le due donne in un lago di sangue, uccise a colpi di arma da taglio, colpite al collo e alle braccia, probabilmente con un’accetta da cucina.

I due orientali sono stati fermati e portati in Questura per essere interrogati dagli investigatori della Squadra mobile.

Il probabile assassino, consuocero della vittima più anziana, era arrivato in città con il treno proveniente da Milano, e il duplice omicidio sarebbe avvenuto al termine di un violento litigio con le vittime.

Subito dopo l’uomo è stato bloccato in strada dal genero, nonché figlio e fratello delle vittime, con il quale è nata la colluttazione.

fonte Polizia di Stato

Picchia la compagna e la minaccia di morte con la pistola: salvata dalla polizia

L’ennesima sfuriata di gelosia sfociata poi in una minaccia di morte. È accaduto in una abitazione al Casilino nella mattinata di ieri, quando al 113 è giunta la segnalazione di una lite violenta tra un uomo armato di pistola e la sua compagna.
Sul posto sono arrivate le pattuglie del Reparto Volanti e dei Commissariati Prenestino e Casilino, a cui le persone presenti hanno riferito di una violenta lite in corso tra conviventi, pare per motivi di gelosia; in particolare agli agenti è stato riferito che l’uomo stava minacciando la sua compagna con una pistola. I poliziotti, dopo aver fatto allontanare i presenti, hanno fatto irruzione nell’appartamento bloccando immediatamente l’uomo, che aveva nascosto nella tasca dei pantaloni anche un coltello a serramanico.

La presenza rassicurante degli agenti della Polizia di Stato ha permesso alla vittima di confidarsi con loro e denunciare le numerose violenze verbali e fisiche subite nel corso degli anni.

Anche questa volta, come successo spesso in passato, la donna era stata oggetto di violenza da parte del suo convivente, che in preda all’ira le aveva sferrato diversi pugni minacciandola di morte con una pistola, successivamente rinvenuta e risultata essere una perfetta replica di una semiautomatica calibro 7,65.

L’uomo, un 53enne romano, con vari precedenti di polizia, è stato pertanto accompagnato negli uffici del Commissariato Prenestino dove è stato arrestato per il reato di lesioni aggravate.

La sua compagna è dovuta invece ricorrere alle cure dei sanitari del vicino pronto soccorso che, avendole riscontrato un trauma cranico e varie contusioni all’emitorace destro, le hanno praticato le cure necessarie.

fonte Il Mattino

Ricordata a Palermo la strage di via Carini

Alle 21.15 del 3 settembre 1982 la mafia assassinò il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, la moglie Emanuela Setti Carraro e Domenico Russo, l’agente della Polizia di Stato che lo stava scortando.

L’auto sulla quale viaggiava il prefetto di Palermo, in quel momento guidata dalla moglie, in via Carini fu affiancata dalla macchina dei killer, che esplosero diverse raffiche di Kalashnikov uccidendoli all’istante.

Stessa sorte per il poliziotto di scorta che seguiva i coniugi a bordo della sua auto di servizio, affiancata da una moto dalla quale partirono le raffiche.

Russo fu ferito gravemente e morì in ospedale dodici giorni dopo.

Per ricordare il 33° anniversario di quel 3 settembre, questa mattina il ministro dell’Interno Angelino Alfano ha deposto una corona sul luogo dell’eccidio.

Alla cerimonia erano presenti anche il prefetto di Palermo Francesca Cannizzo, quello di Agrigento Nicola Diomede, il questore Guido Nicolò Longo nonché le massime autorità locali e i rappresentanti delle Forze dell’ordine.

fonte Polizia di Stato